Il Concerto al Buio

di Alfredo “edo” Notarloberti.

Nessuno di noi cinque aveva idea della strada che stavamo imboccando.

In particolare io, non sapevo che quella strada  mi avrebbe cambiato la vita.

Accettai la proposta del mio amico non vedente, Vincenzo, di fare un mio concerto, ma non in maniera tradizionale, l’esecuzione sarebbe avvenuta al buio!

Suonare al buio!?

Un concerto da fare al buio per condurre i vedenti al modo di vivere l’ascolto della musica di chi la vista non ce l’ha.

Una sfida che fin dal primo momento mostrò difficoltà da superare piuttosto importanti. Nessuna direttiva gestuale, tutti i brani a memoria, nessuna possibilità di avere riferimenti visivi per suonare gli strumenti. Violino, pianoforte, batteria basso e chitarra. Ogni strumento al buio diventava nuovo . C’era da trovare una nuova tecnica senza togliere nulla all’espressione. Un’impresa difficile, ma stimolante.

Facemmo prove su prove, ovviamente spegnendo le luci. Cercavamo di capire come fare per affrontare tutte le difficoltà.

Il mio strumento, il violino, era semplice da suonare al buio, del resto avevo sempre suonato con gli occhi chiusi e non fu difficile adeguarmi alla nuova dimensione. Ben più difficile fu per gli strumenti, soprattutto per la pianista.

Facemmo giorni e giorni di prove creando l’oscurità.

Ma il buio? Sapete cosa significa buio?

Noi ancora non lo sapevamo, ma lo scoprimmo presto.

Il giorno del concerto, il 27 aprile 2012, trovammo la sala del concerto completamente oscurata.

Pannelli scuri alle finestre, nastro isolante nero nelle intercapedini delle porte, qualsiasi fonte di luce coperta, tutto proteso a far sì che in quel posto non ci fosse alcuna luce.

Cominciammo a temere che il buio che avremmo affrontato quella sera fosse lontanissimo dal buio che c’eravamo illusi di aver creato nelle nostre prove.

Ricordo che quando spensero le luci fu come se avessero spento anche tutto il resto: il pavimento, il tetto, le pareti, noi stessi eravamo improvvisamente spariti.

Quel buio era devastante!

Strinsi forte il mio violino come se fosse piantato a terra, come se fosse l’unica cosa che mi rassicurasse sul fatto che non stessi galleggiando nell’aria.

Non so quanto tempo passò fino alla prima nota, non saprei dirlo, perché con lo spegnersi della luce si era spento anche il tempo.

Suonavamo ma la musica risultava diversa e non perché le note lo fossero, ma perché avevano assunto un valore assoluto. Mentre prima la musica era aggrappata a noi ed ai nostri strumenti, ora al buio eravamo noi aggrappati a lei, e lei fluttuava e viaggiava ad una velocità iperbolica, come quando sguinzagli un cane  su un prato immenso dopo che l’hai tenuto per giorni chiuso in casa.

La musica correva cosi!

Fu lì che capi che qualcosa era cambiato, che quello era il luogo dove la mia musica avveniva.

Da quel momento e’ stato un susseguirsi di concerti al buio, inizialmente sporadici e legati alle iniziative degli amici non vedenti e successivamente, acquisita la consapevolezza che non poteva esistere altro modo di suonare la mia musica, è diventato una forma di concerto a sé.

Fu così che dopo diversi anni approcciai alla Galleria Borbonica, un luogo intriso di storia, rifugio antiaereo durante la guerra, deposito giudiziario di auto sequestrate e infine discarica abusiva. Ripulito negli ultimi anni offriva la possibilità di visitarlo con percorsi nel sottosuolo. Proposi il mio concerto.

Ricordo il primo!

Suonavo su un palco naturale di pietra. Le persone compivano prima un breve giro tra i cunicoli della galleria accompagnate dalle guide e poi venivano condotti nel luogo del concerto. Breve presentazione e via le luci, rimanevano solo le cinque candele accese davanti a me. Le spensi una ad una fino a spegnere l’ultima. Ed arrivò il buio pesto.

Nessuno conosce quel buio se non lo ha visto. Sì, ho detto bene “visto” perchè quel buio lo si vede! In quel buio si vede molto chiaramente!

Quando si spengono le luci, io sparisco, io non esisto più, e non tanto perché non mi si vede, ma davvero non esisto più. Esiste solo la mia musica ed anche per me io non esisto. O meglio, esisto, ma solo nella musica. Non altrove. Non su quel palco, non nel mio corpo, non nei miei gesti. Ma solo nella mia musica.

Non so come spiegarlo, ma al buio si incontrano le anime, perché i corpi non esistono più. E se c’è la musica, le anime cominciano a danzare, cantano e si commuovono, si muovono con la musica.

Il concerto che sprofonda nel buio pesto non e’ neanche più un concerto. E’ una esperienza emozionale. E’ una palestra emotiva dove fuori e’ tutto fermo, il corpo e’ immobile, ma dentro e’ tutto in movimento.

Gioia, dolore, vita e morte trovano il proprio prato dove liberare la propria corsa.

Il concerto è breve. Una mezzora non di più.

I miei brani partono dal “dentro di me”, ed arrivano al “dentro” delle persone, con una forza che la luce non permette. E la musica non mi appartiene più.

Credo che le persone che assistono al concerto al buio perdano immediatamente la percezione che qualcuno stia a suonare.

L’esecuzione non ha più valore. Esiste solo mia musica che diventa degli altri. L’altro se ne appropria e la mette così dentro di sé, che rimane sua e, forse, neanche ricorda che viene da qualcun’altro.

Poco importa. E’ così che fa il buio.

Ecco perchè ho sempre pensato che la parola “concerto” per definire tutto questo non c’entra niente.

Il buio rende tutto diverso, la musica, le persone, le percezioni, i luoghi.

Il concerto termina!

Si riaccendono le luci che invece di restituirci la vista, ci privano del privilegio buio!

E si prova profondo disagio. Si subisce il passaggio dal buio alla luce dove l’anima viene di nuovo rinchiusa.

La luce ci restituisce i nostri corpi, il nostro tempo ed il nostro spazio, ma confina l’anima nello spazio angusto della nostra valigia emotiva e facciamo fatica a rimetterla tutta quella roba, una volta tirata fuori al buio:

Si appallottola la felicità facendo spazio accanto al dolore a malapena piegato, nell’elastico della fodera si ripone la malinconia. Il perdono lo si mette sempre in fondo a tutto, che a volte non sai neanche dove l’hai messo e pensi di averlo dimenticato da qualche parte durante il viaggio, ma se vedi bene, lo trovi sempre sotto al dolore. E poi l’amore che occupa sempre più spazio di tutti che alla fine per chiuderla, quella valigia, tocca spingere forte, quasi a farla scoppiare.

E rimane sempre un lembo di qualcosa fuori, un’emozione sdrucita, magari è solo un singhiozzo o un profondo sospiro, che sia felicità o dolore, poco importa, meglio lasciarlo lì penzolare, magari ci ricorderà più avanti nel viaggio, di aprirla nuovamente per mettere tutto a posto.